Ultimamente si sente spesso parlare, tramite i Social Media prevalentemente, della comunicazione inclusiva e, in particolare, del linguaggio inclusivo. Quest’ultima espressione è diventata sinonimo di linguaggio di genere o linguaggio non sessista, cioè tutte quelle strategie per usare la lingua in modo rispettoso del genere delle persone. No, non è moda passeggera, ma è qualcosa di molto più complesso, che ha radici profonde nella cultura. Ecco perché dobbiamo capire perché utilizzarlo e come farlo.
Il linguaggio crea relazioni
Come esseri umani, il linguaggio ci connette a specifiche comunità, che ci rende simili e ci distingue dagli altri gruppi sociali. Nel suo Ted Talk “How language shapes the way we think“, Lera Boroditsky spiega che esistono oltre 7000 lingue nel mondo, ognuna con suoni, vocabolari e strutture diverse, le quali influenzano il nostro modo di pensare e percepire la realtà. Il linguaggio, quindi, ha il potere di unire le persone, ma può anche creare barriere e isolare chi si trova al di fuori, resistendo al cambiamento.
Possiamo dire che:
- Il linguaggio riflette e perpetua le relazioni di potere esistenti. Attraverso le parole, vengono stabilite gerarchie sociali e si esercita il controllo sulle idee e sulle identità.
- Le scelte linguistiche, come l’uso di determinati termini o l’attribuzione di etichette, possono influenzare la percezione delle persone e dei gruppi.
- Il linguaggio può rendere invisibile ciò che non viene rappresentato, escludendo, discriminando o marginalizzando determinati gruppi di persone.
Proprio su quest’ultimo punto è importante soffermarsi, perché è la chiave di lettura apportata dal linguaggio, o meglio, i linguaggi inclusivi.
Luci e ombre delle parole
In linguistica, esiste una teoria chiamata l’ipotesi di Sapir-Whorf, conosciuta anche come ipotesi della relatività linguistica. Citando le parole di Vera Gheno nel Podcast del Il Post “Amare Parole” nella puntata “Il linguaggio modella il nostro modo di pensare?”, la teoria afferma che le parole che usiamo possono contribuire a mettere a fuoco o nascondere determinati aspetti della realtà.
Su questo gioco di luci e ombre, si basa l’esistenza o meno di certe categorie rispetto ad altre. Il linguaggio plasma, senza nemmeno rendercene conto, il nostro modo di osservare la realtà: normalizzare delle parole – come ad esempio le professioni al femminile – fa sì che esistano nel nostro cervello e dunque anche nella realtà stessa. É un atto di giustizia sociale e di inclusione.
Buone pratiche per la comunicazione
Arriviamo al mondo della comunicazione digitale, dove ad oggi si è aperto un dibattito per quanto riguarda i linguaggi inclusivi.
Non si tratta solo del determinare se sia meglio l’asterisco piuttosto che la “schwa”: chi scrive e crea contenuti online ha un’enorme responsabilità perché si rivolge ad un pubblico che è vasto, globalizzato e ha un certo tipo di identità e cultura, che va considerata, per non alimentare quel sistema di esclusività e di diseguaglianza sociale, creando così un’esperienza digitale più ricca e competitiva.
Quali sono dunque le buone pratiche per dei linguaggi inclusivi?
- Abbattere gli stereotipi di genere.
- Eliminare gli stereotipi abilisti.
- Smontare la discriminazione generazionale.
- Esorcizzare il classismo.
- Descrivere realtà multiculturali e multietniche.
- Usare concetti comprensibili da chiunque.
Queste sono le nozioni espresse e approfondite nel manuale Scrivi e lascia vivere ma consiglio la lettura anche del Manifesto della comunicazione non ostile e inclusiva, nel quale sono espressi i dieci principi di stile a cui ispirarsi per scegliere parole giuste per superare le differenze, i pregiudizi e abbattere i muri dell’incomprensione.
La consapevolezza delle scelte linguistiche e il loro impatto sulle dinamiche sociali sono fondamentali per promuovere una società più equa. Bisogna però trovare le parole giuste per farlo.
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